lunedì 29 dicembre 2008

Gli alberi

Ho scoperto recentemente con mia grande soddisfazione che gli alberi erano sacri nell'antichità e che, perciò, con l'avvento del cristianesimo venivano abbattuti senza remore perchè considerati "demoniaci" (come tutto ciò che era sacro prima del cristianesimo).
Dentro di me c'è una forte venerazione per gli alberi.
Che cosa rappresenta l'albero?
Se ci penso l'albero è ancorato, legato alla Terra ma svetta verso il cielo, vede il sole e il cielo, il sereno e le nuvole.
La foresta (o il bosco) è un insieme di alberi, ed è un posto sacro, dove il divino si sente in maniera molto forte. Non è un caso se molte "favole"hanno i protagonisti che devono attraversare un bosco (o una foresta), cioè passare attraverso il sacro. Riunirsi alla propria parte sacra che è stata smarrita o non si conosce.
L'albero è la forza e la possanza della Terra, assicura ombra, stabilità, legname ed è un legame forte con la Terra, un legame con la Madre, che nutre e sostenta.
L'albero, che impiega molti anni per crescere, compie un percorso, un cammino che lo porta dalla terra, nella quale è ancorato e si nutre, al cielo, dal quale riceve sole e acqua.
Un albero offre riparo agli uccelli, spesso messaggeri divini.
Allora mi sembra che possa diventare per estensione un tempio naturale . Perchè esso è sacro, accoglie i messaggeri della divinità e offre uno spazio attorno a sè che è ottimo per la meditazione.
Quindi diventano a tutti gli effetti un "luogo" sacro e perciò abbattere o bruciare un albero per sfregio o per calcolo è compiere un'azione terribile, un sacrilegio.
L'albero che svetta verso il cielo compie il cammino di chi va verso il sacro ma non perchè il cielo è sacro e la terra no. E' solo un parlar figurato il mio.
Perchè dobbiamo imparare che la Terra è sacra. E' una madre che nutre e ospita, non la si può inquinare, deturpare, impoverire, isterilire senza subirne le conseguenze di questi gesti scriteriati.
Gli egiziani antichi parlavano di dio terra e dea cielo.
Mentre noi diciamo dea la Terra, femmina la terra e dio il cielo, per estensione dove c'è il Dio maschile.
Quindi siamo arrivati a credere che la Terra non è importante e la si può sfruttare e devastare, perchè è "femminile"

domenica 28 dicembre 2008

Il corvo, messaggero divino

"In Irlanda era l’animale legato al dio Lug ed anche l’animale che appariva, non per caso, negli auspici della fondazione della città di Lione. Il corvo nella mitologia di quei popoli era un messaggero dell’oltretomba mentre Lug era un un dio luminosoNell’Urheimat, la nordica patria d’origine dei popoli indoeuropei, il corvo doveva solcare con la sua nera figura il cielo. Il suo simbolismo è duale, essendo collegato sia con la saggezza, la preveggenza e la lungimiranza, sia con la morte e la distruzione: le sue peculiarità lo fanno animale solare e notturno al tempo stesso.Particolare importanza riveste nella mitologia nordico-germanica e in quella celtica. Tra i Germani i corvi sono sacri a Wotan-Odino, e i suoi due corvi Huginn e Muninn ("pensiero" e "memoria") volano nel mondo a raccogliere ogni informazione, per poi tornare a riferirla al dio sovrano.Il corvo è spesso associato agli occhi: non solo per via della sua capacità di lungimiranza, ma anche perché gli occhi sono il suo primo pasto quando si imbatte nei caduti in battaglia; inoltre i suoi occhi hanno potere medicamentoso. Nella mitologia greca il carattere solare si manifesta nel fatto che è messaggero di Helios-Apollo e collegato a Crono, ad Atena e a Asclepio-Esculapio; i corvi predissero la morte di Platone, come a Roma quelle di Tiberio e Cicerone.Nell'Estremo Oriente e in Oceania, esisteva un dualismo cosmologico che metteva in opposizione due principi, da una parte la luce, il Sole, e il fuoco, dall'altra il buio, la Luna e l'acqua. Il primo principio era generalmente rappresentato da un uccello. In Cina era un corvo.Il dio Brahma, nella religione hindu, si manifesta anche sotto le sembianze del corvo. TULUGAUKUK è il corvo padre nella mitologia eschimese.Il primo Cristianesimo rinfacciava al corvo di non avere informato Noè della fine del diluvio, diventando il simbolo di chi, dominato da smanie mondane, rinvia la propria conversione, ed esclama come il corvo cras, cras cioè “domani, domani”.Il Corvo (in latino Corvus) è una piccola costellazione meridionale, con solo 11 stelle visibili ad occhio nudo È una delle 88 costellazioni moderne, ed era una delle 48 costellazioni elencate da Tolomeo" FONTE: elival64 http://it.answers.yahoo.com/question/index?qid=20070831153638AAyasUn

La morrigan

La Morrigan La "Regina delle Illusioni" o "dei Fantasmi" appartiene al gruppo delle dee della guerra irlandesi. Le altre sono Nemhain, Badbh e Macha. Esse condividono la caratteristica di apparire in forma singola o triplice e di combinare un ruolo sessuale a quello guerresco. Queste divinità non ingaggiano battaglia personalmente ma condizionano psicologiamente gli eserciti con la loro spaventosa presenza. In buona misura le diverse dee di questo gruppo sono intercambiabili. Ad esempio la Morrigan e la Badbh si trasformano in corvi e cornacchie sui campi di battaglia. La capacità di passare alla forma umana a quella animale o di modificare il proprio aspetto umano è un tratto comune a diverse dee irlandesi: le tradizioni relative alla Morrigan sottolineano questo aspetto della sua natur, ben esemplificata in un racconto connesso a Cù Chulainn. L'eroe dell' Ulster incontra la Morrigan sotto la forma di una bellissima fanciulla che gli confessa il suo amore. Egli la respinge ed ella, per vendicarsi, lo assale trasformandosi successivamente in anguilla, in lupo e in una giovenca rossa senza corna. L' eroe riesce a respingerla, e quando ormai stremato, la Dea gli appare in forma di vecchia che munge una mucca. Quando la donna gli da del latte, Cù Chulainn la benedice, ed essa guarisce dalle ferite. Ma è in forma di uccello necrofago che compare con maggiore frequenza. In questa forma si posa sulla spalla dell' eroe dell' Ulster quando muore. In aggiunta ai suoi attributi guerreschi, la Morrigan possiede un potente simbolismo sessuale e di fertilità. Ciò è evedente nel suo tentativo di seduzione. In un racconto, la Morrigan si accoppia ritualmente con il Dio Daghda. In questo caso ella rappresenta la dea della fertilità che si unisce con il dio protettore delle tribù. Un altro aspetto del carattere della Morrigan riguarda il suo ruolo di profetessa. Nel corso della guerra tra il connacht e l'Ulster, ella avverte il Toro Bruno di Cualinge del destino che lo aspetta. Dopo l'accoppiamento con il Daghda, la Morrigan consiglia il dio su come comportarsi con i Fomori, i nemici dei Tuatha Dè Danann. Quando questi ultimi risultano vincitori, ella si lascia andare a profezie apocalittiche. Come la Badbh, la Morrigan appare come "lavandaia al guado", figura del destino che predice ai guerrieri la loro morte, lavandone le armi e le armature. Come ultima caratteristica, la Morrigan è in grado di fare incantesimi: possiede una mandria di mucche fatate e, come narra una leggenda, getta su una donna mortale, Odras, trasformandola in un pozzo d'acqua, poichè il toro di questa di è accoppiato con una delle sue mucche. La punizione è forse causata dall' unione tra ciò che è immortale e ciò che non lo è.

sabato 27 dicembre 2008

Iside la Dea, la Maga, la Madre

Iside, venerata spesso in associazione con il dio Serapide, fu una delle divinità più famose di tutto il bacino del Mar Mediterraneo. Dall'epoca tolemaica la venerazione per la dea, simbolo di sposa e madre e protettrice dei naviganti, si diffuse nel mondo ellenistico, fino a Roma. Il suo culto, diventato misterico per i legami della dea con il mondo ultraterreno e nonostante all'inizio fosse ostacolato, dilagò in tutto l'impero romano. Nel sincretismo tipico della religione romana Iside venne assimilata con molte divinità femminili locali, quali Cibele, Demetra e Cerere, e molti templi furono innalzati in suo onore in Europa, Africa ed Asia. Il più famoso fu quello di File, l'ultimo tempio pagano ad essere chiuso nel VI secolo. Durante il suo sviluppo nell' Impero il culto di Iside si contraddistinse per processioni e feste in onore della dea molto festose e ricche. Le sacerdotesse della dea vestivano solitamente in bianco e si adornavano di fiori; a Roma, probabilmente a frutto dell' influenza del culto autoctono di Vesta, dedicavano talvolta la loro castità alla dea Iside. La decadenza nel Mediterraneo del culto di Iside fu per lo più determinata da nuove religioni misteriche quali lo Zoroastrismo e lo stesso Cristianesimo. Iside o Isis o Isi (in lingua egiziana Aset cioè trono), originaria del Delta, è la dea della maternità e della fertilità nella mitologia egizia. Divinità in origine celeste, associata alla regalità (il suo geroglifico include la parola per "trono"), faceva parte dell'Enneade. Figlia di Nut e Geb, sorella di Nefti, Seth ed Osiride, di cui fu anche sposa e dal quale ebbe Horus. Secondo il mito, raccontato nei Testi delle Piramidi e da Plutarco nel suo Iside ed Osiride, con l'aiuto della sorella Nefti assemblò le parti del corpo di Osiride, riportandolo alla vita. Per questo era considerata una divinità associata alla magia ed all'oltretomba. Aiutò a civilizzare il mondo, ed inventò il sistro; istituì il matrimonio e insegnò alle donne le arti domestiche. Iside è spesso simboleggiata da una vacca, in associazione con Hathor, ed è raffigurata con le corna bovine, tra le quali è racchiuso il sole. Nell'iconografia è rappresentata spesso come un falco o come una donna con ali di uccello e simboleggia il vento. In forma alata è anche dipinta sui sarcofagi nell’atto di prendere l’anima tra le ali per condurla a nuova vita. Solitamente viene raffigurata con una donna vestita, con in testa il simbolo del trono, che tiene in mano un loto, simbolo della fertilità o l'uadj. Frequenti anche le rappresentazioni della dea mentre allatta il figlio Horo. Il suo simbolo è il tiet, chiamato anche nodo isiaco. (un grazie a wikipedia)

Marija Gimbutas

Marija Gimbutas (Vilnius, 23 gennaio 1921Los Angeles, 2 febbraio 1994) è stata un'archeologa e linguista lituana. Studiò le culture del neolitico e dell'età del bronzo della "Vecchia Europa", un'espressione da lei introdotta. I lavori pubblicati tra il 1946 e il 1971 introdussero nuovi punti di vista nell'ambito della linguistica e dell'interpretazione della mitologia. Marija Gimbutas giunse negli Stati Uniti come rifugiata dalla Lituania nel 1949 dopo aver conseguito un dottorato (PhD) in archeologia nel 1946 alla Università di Tubinga in Germania, ma mai dimenticò le radici lituane. Iniziò all'Harvard University traducendo testi di archeologia dell'Europa orientale, e divenne assistente al Dipartimento di Antropologia. Nel 1955 divenne Fellow dell'Harvard's Peabody Museum. Nel 1956, la Gimbutas introdusse la sua "Ipotesi Kurgan", che coniugava lo studio della cultura Kurgan con la linguistica al fine di risolvere alcuni problemi concernenti gli antichi popoli parlanti il proto-indo-europeo (PIE), che qualificò come genti "Kurgan". Questa ipotesi e il suo atteggiamento multidisciplinare ebbero un impatto significativo sull'indoeuropeistica. In qualità di professore di archeologia alla UCLA University dal 1963 al 1989, Marija Gimbutas diresse i maggiori scavi dei siti del neolitico nell'Europa sud-orientale tra il 1967 e il 1980, grazie ai quali furono portati alla luce una gran quantità di manufatti artistici e di uso quotidiano risalenti ad un periodo precedente a quello che si riteneva a quel tempo l'inizio del neolitico in Europa. Gimbutas si guadagnò una reputazione di specialista mondiale dell 'età del bronzo indoeuropea, nonché del folklore lituano e della preistoria dei balti e slavi, parzialmente riassunta nel definitivo Bronze Age Cultures of Central and Eastern Europe (1965), ma ottenne una fama inaspettata con i suoi tre libri: The Goddesses and Gods of Old Europe (1974), The Language of the Goddess (1989)— che ispirò una mostra a Wiesbaden, 1993/94— ed il suo ultimo libro The Civilization of the Goddess (1991), che presenteva una panoramica delle sue teorie circa le culture del neolitico in Europa: configurazioni architettoniche, strutture sociali, arte, religione e letteratura. Il libro discuteva le differenze tra gli elementi del sistema della "vecchia Europa", da lei considerato matriarcale e ginocentrico, e la cultura patriarcale portata dagli indoeuropei nell'età del bronzo. Secondo la Gimbutas, questi due sistemi si sarebbero fusi generando le società classica dell'Europa storica. Nel suo lavoro la Gimbutas reinterpretò la preistoria europea alla luce delle sue conoscenze in Linguistica, etnologia e storia delle religioni, proponendo così un quadro in contrasto con le tradizionali assunzioni circa l'inizio della civilità europea. Joseph Campbell e Ashley Montagu ritennero paragonabile il contributo di Marija Gimbutas alla Stele di Rosetta e la decifrazione dei geroglifici egiziani. Campbell scrisse la prefazione ad una edizione del The Language of the Goddess (1989), prima che la Gimbutas morisse, e spesso diceva di quanto profondamente si rammaricasse che le sue ricerche sulle culture del neolitico dell'Europa non fossero disponibili nel tempo in cui lui stava scrivendo The Masks of God. I suoi articoli sono archiviati insieme con quelli della Gimbutas alla "Joseph Campbell and Marija Gimbutas library", al Pacifica Graduate Institute, a sud di Santa Barbara, California. Joan Marler scrisse: « Sebbene l'interpretazione dell'ideologia delle società preistoriche sia considerata inopportuna nella ricerca archeologica, per Maria era ovvio che ciascun aspetto della cultura della Vecchia Europa espresse un sofisticato simbolismo religioso. Pertanto si dedicò allo studio esaustivo dell'iconografia e del simbolismo del Neolitico al fine di scoprirne i significati sociali e mitologici. Per realizzare ciò fu necessario allargare gli orizzonti dell'archeologia descrittiva al fine di includere linguistica, mitologia, comparazione delle religioni e lo studio storiografico. Lei definì questo approccio interdisciplinare, 'archeomitologia'. » L'ipotesi Kurgan è quella che riceve maggiori consensi circa la diffusione delle lingue indoeuropee I critici sostengono che gli oggetti ritrovati nelle sepolture, di cui la Gimbutas non tiene conto, suggeriscano in realtà che nel Neolitico vi fossero ruoli sociali più usuali per i sessi; contestano l'enfasi data alla figura femminile quando in realtà sono presenti anche molte figure maschili o asessuate. Andrew Fleming [1], "The Myth of the Mother Goddess," (World Archaeology 1969) nega che la spirale Neolitica, i cerchi, ed i punti siano simboli che rappresentano gli occhi; che gli occhi, le facce e le figure asessuate siano simboli femminili; o che certe figure femminili possano rappresentare divinità. Peter Ucko [2] giunge ad ipotizzare che quelle figure femminili che la Gimbutas presumeva fossero simbolo della fertilità, fossero in realtà vere e proprie bambole del Neolitico. I suoi tentativi di decifrare i segni Neolitici come ideogrammi, in The Language of the Goddess (1989), ricevettero la più dura opposizione. (grazie a wikipedia)

La Dea Madre

La Grande Madre è una divinità femminile primordiale, presente in quasi tutte le mitologie note, in cui si manifestano la terra, la generatività, il femminile come mediatore tra l'umano e il divino. Alcuni la considerano sorta durante una mitica fase matriarcale, che le società di cacciatori-raccoglitori avrebbero condiviso. Il culto della Grande Madre risale al Neolitico e forse addirittura al Paleolitico, se si leggono in questo senso le numerose figure femminili steatopigie (c.d. "Veneri") ritrovate in tutta Europa, di cui naturalmente non conosciamo il nome. Lungo le generazioni, con gli spostamenti di popoli e la crescita di complessità delle culture, le "competenze" della Grande Madre si moltiplicarono in diverse divinità femminili. Per cui la Grande Dea, pur continuando ad esistere e ad avere culti propri, assumerà personificazioni distinte, per esempio, per sovrintendere all'amore sensuale (Ishtar-Astarte-Afrodite pandemia-Venere), alla fertilità delle donne (Ecate triforme, come 3 sono le fasi della vita), alla fertilità dei campi (Demetra / Cerere e Persefone / Proserpina), alla caccia (Artemide-Diana). Inoltre, siccome il ciclo naturale delle messi implica la morte del seme, perché esso possa risorgere nella nuova stagione, la grande dea è connessa anche a culti legati al ciclo morte-rinascita e alla Luna, che da sempre lo rappresenta (i più arcaici di questi riti sono riservati alle donne, come quello di Mater Matuta o della Bona Dea). Ad esempio, nelle feste e nei misteri in onore del gruppo Demetra / Cerere-Persefone / Proserpina, il suo culto segna il volgere delle stagioni, ma anche la domanda dell'uomo di rinascere come il seme rinasce dalla terra. L'evoluzione teologica della figura della Grande Madre (giacché nulla va perduto, nel labirinto della mitologia) venne costantemente rappresentata da segnali di connessione tra le nuove divinità e quella arcaica. Finché le religioni dominanti ebbero carattere politeistico, un segno certo di connessione consisteva nella parentela mitologica attestata da mitografi e poeti antichi (ad esempio, Ecate è figlia di Gea; Demetra è figlia di Rea). Altro carattere che permette di riconoscere le tracce della Grande Dea nelle sue più tarde eredi, è poi la ripetizione di specifici attributi iconologici e simbolici che ne richiamano l'orizzonte originario. Ad esempio: il dominio sugli animali, che accomuna i leoni alati che accompagnano Ishtar, la cerva di Diana e il serpente ctonio della dea cretese; l'ambientazione tra rupi (o in caverne, a ricordare il carattere ctonio della divinità originale) e boschi, o presso acque; il carattere e i culti notturni. Anche nel mutare delle religioni, la memoria della divinità arcaica, "signora" di luoghi o semplicemente di bisogni umani primari, si mantenne e si trasmise lungo le generazioni, dando luogo a culti forse inconsapevolmente sincretistici (le cui ultime propaggini possono essere considerate, ad esempio, le molte Madonne Nere venerate in Europa). Nell'area mediterranea ne conosciamo i nomi e le storie, nelle diverse civilizzazioni in cui si impose, dall'epoca protostorica: in area mesopotamica (V millennio AC): Ninhursag in area anatolica (II millennio AC): Cibele in area greca: Gea in area etrusca: Mater Matuta in area romana: Bona Dea o Magna Mater La variante nordica della Grande Madre, portata fino alle Isole britanniche da migrazioni di popoli pre-achei verso nord ovest, è secondo Robert Graves la Dea Bianca della mitologia celtica (colei che a Samotracia si chiamava Leucotea e proteggeva i marinai nei naufragi). (grazie a wikipedia)

domenica 14 dicembre 2008

Twilight I vampiri sono tra noi

Twilight è il primo libro di Stephenie Meyer, pubblicato nel 2005 negli Stati Uniti e nel 2006 in Italia. È un romanzo dedicato ad un pubblico giovane che ha riscosso molto successo negli Stati Uniti ed è sbarcato in Italia ottenendo il medesimo risultato. Il 21 novembre 2008 è uscito il film Twilight tratto dal libroIsabella Swan decide di trasferirsi dalla soleggiata Phoenix alla piovosa cittadina di Forks nello stato di Washington per vivere con il padre Charlie e lasciare libera la madre, Renée, di viaggiare con il nuovo marito Phil Dwyer, un giocatore di baseball di serie B. Alla nuova scuola, Bella (come preferisce farsi chiamare) viene accettata in fretta dai compagni e molti ragazzi le dedicano attenzioni, ma Bella continua a pensare che Forks sia una città noiosa, finché non incontra lo sguardo di Edward Cullen durante la pausa pranzo scolastica. Osservandolo accuratamente durante la lezione di biologia, Bella capisce che Edward nasconde qualcosa, ma nessuna delle sue teorie la porta a comprendere la reale natura soprannaturale del ragazzo. Bella è convinta che Edward la odi dal primo momento in cui l’ha incontrata, ma questo suo comportamento cambia gradualmente, fino ad indurlo a salvarla da un furgoncino che sta per investirla. Anche dopo il salvataggio, Edward continua a sostenere di essere pericoloso ed esorta Bella a stargli lontano.. Successivamente, Jacob Black, figlio di Billy, caro amico del padre di Bella, appartenente alla tribù dei Quileute, le racconta una leggenda secondo la quale i Cullen sono banditi dalla riserva indiana in quanto vampiri, nonostante si siano imposti di nutrirsi solo di sangue animale e mai umano. Sebbene la natura di Edward e della sua famiglia crei non pochi problemi, lui e Bella si innamorano. La loro preoccupazione principale nasce dal fatto che Edward è irresistibilmente attratto dall’odore del sangue della ragazza e deve trattenersi dal morderla. La sera in cui Bella viene invitata ad assistere ad una partita di baseball giocata da Edward e famiglia, tre vampiri, James, Victoria e Laurent, fanno la loro apparizione dal bosco e sentono l’odore di Bella. James, un segugio impeccabile, inizia a darle la caccia e Bella, aiutata dai Cullen, è costretta a scappare a Phoenix. Con un inganno, James riesce ad attirare Bella nella sua vecchia scuola di ballo per ucciderla. Bella viene morsa da James, e solo l’intervento provvidenziale di Edward, che resiste alla tentazione del suo sangue grazie all'amore che prova per lei, la salverà dalla trasformazione. Il giorno del ballo di fine anno, Bella chiede nuovamente ad Edward di trasformarla in vampiro, ma lui si oppone. Isabella Swan, detta anche Bella, è la voce narrante del libro, ed ogni cosa è vista attraverso i suoi occhi. Charlie Swan, padre di Isabella, è Capo della Polizia di Forks. Renée Dwyer, madre di Isabella, vive a Phoenix prima ed a Jacksonville poi; si è risposata con Phil Dwyer dopo aver lasciato Charlie diciassette anni prima; Phil Dwyer, nuovo marito di Renèe quindi patrigno di Bella. Allena squadre giovanili a baseball. Angela Weber, la migliore amica umana di Bella, riservata e gentile. Jessica Stanley, la prima amica che Bella si è fatta a scuola. Mike Newton, amico di Bella invaghito perso di lei fin dal primo giorno. Ben Cheney, accompagnatore di Angela al ballo. Jacob Black, indiano Quileute, figlio di Billy Black, che svela a Bella la vera identità di Edward; Billy Black, padre di Jacob, vedovo, è il miglior amico di Charlie Swan. Sam Uley, indiano Quileute, capo del branco dei licantropi, amico di Jacob Black Harry Clearwater, amico di vecchia data di Charlie. Edward Cullen, vampiro, figlio adottivo di Carlisle e Esme Cullen, ha il potere di leggere nelle menti di tutte le persone, tranne che di Bella, ed è incredibilmente veloce. Carlisle Cullen, vampiro, dottore di straordinario talento all'ospedale di Forks. Esme Cullen, vampira, moglie di Carlisle Cullen, in Twilight il suo personaggio è poco trattato. La sua maggiore caratteristica in questo libro è il suo istinto materno. Alice Cullen, vampira, componente della famiglia Cullen, diviene presto amica di Bella, ha la capacità di prevedere il futuro nel momento stesso in cui viene presa la decisione di agire. Emmett Cullen, vampiro, componente della famiglia Cullen, è dotato di un'impressionante forza fisica. Rosalie Hale, vampira, componente della famiglia Cullen, è descritta come bellissima e testarda. Jasper Hale, vampiro, componente della famiglia Cullen, è in grado di percepire e controllare i sentimenti di chi gli sta intorno. Laurent, vampiro, in viaggio con James e Victoria (e apparentemente capo del trio) incrocia i Cullen e Bella. James, vampiro, con Laurent e Victoria si imbatte nei Cullen e in Bella. All'odore dell'umana esce il suo istinto di cacciatore. Victoria, vampira, compagna di James. ...e questo è il sito ufficiale della Meyerhttp://www.stepheniemeyer.com/

lunedì 22 settembre 2008

giovedì 28 agosto 2008

L'erotismo nella terra di Kem

L'importanza della componente erotica presso gli egizi è ancora, per la moderna archeologia, un vasto campo d'indagine, dato che sino ad ora questo tema è stato rimosso dalla ricerca a causa di un superficiale pudore. In Egitto non vi sono raffigurazioni erotiche che descrivano i rapporti interumani. Ciò potrebbe far supporre che l'erotismo sulle sponde del Nilo sia tabù. Non è vero. Basti pensare che, se gli egizi non ci hanno tramandato immagini erotiche ( come invece hanno fatto greci e romani), ci hanno lasciato sull'argomento parecchi scritti. Il grande papiro di Torino dimostra che tremila anni or sono nella Terra delle piramidi circolava già la pornografia. Gli antichi egizi erano soliti anche usare dei misteriosi miscugli afrodisiaci. Se confrontiamo la lettura erotica degli egizi con quella dei greci e dei romani, emerge che nel Paese del Nilo la donna in amore era molto libera, seducente ed aggressiva, del tutto diversa da colei che si legge dai racconti di Ovidio ( Ars Amandi) o di Luciano ( Dialoghi). Le donne egiziane contavano molto più delle donne del resto del mondo. E ciò valeva anche e soprattutto per la componente erotica. In nessun'altra parte del mondo c'erano gli strip tease, le danzatrici così belle. Le troviamo per la prima volta alla corte del quarto Thutmosi, bisnonno di Tut: uno scriba templare di Thutmosi IV fece riprodurre nella propria tomba una di quelle danzatrici chiamate "della bellezza". Da allora, esse comparvero spesso nelle sepolture private tebane. E' possibile ammirarle anche nel sacro tempio di Luxor; una cosa oscena per il pudico Erodoto.

L'alimentazione nella Terra di Kem

L'alimentazione nell'Antico Egitto Gli antichi egiziani ritenevano che la vita continuasse dopo la morte e che l’anima avesse ancora bisogno di mangiare, di bere e di tutte le cose di cui godeva in vita; è grazie a questo importante concetto che noi siamo in grado di conoscere in modo abbastanza approfondito gli usi alimentari e le caratteristiche delle mense di questo antico popolo. Nei corredi funerari delle tombe egizie infatti non venivano deposti solo i beni personali del defunto, ma anche abbondanti cibi e bevande conservati in vari tipi di contenitori, che dovevano garantire al morto di che sopravvivere nell’aldilà; spesso questi cibi e contenitori sono arrivati intatti fino ai giorni nostri. Nelle tombe egizie troviamo inoltre alcune serie di oggetti con una funzione essenzialmente magica, che dovevano fornire da mangiare e da bere per l’eternità all’anima del defunto, poiché i cibi nel corredo funerario potevano esaurirsi o deperire: si tratta delle stele funerarie, con la formula magica dell’offerta e la raffigurazione del pasto funerario da parte del defunto e dei parenti; delle statuette di servitori in atto di produrre alimenti di vario tipo; delle tavole d’offerta con le raffigurazioni dei vari cibi. Notizie sulla produzione alimentare dell’antico Egitto ci vengono infine dalle numerose scene di vita quotidiana scolpite o dipinte sulle pareti delle tombe, che con grande ricchezza di particolari avevano lo scopo di ricreare magicamente la vita terrena del defunto e soprattutto la produzione di cibi e bevande per la sua sopravvivenza. Tramite dunque i reperti conservati nei corredi funerari e le scene presenti nelle tombe, si è potuto arrivare a conoscere sia i prodotti alimentari finiti, sia le caratteristiche della loro produzione e i procedimenti della loro conservazione e cottura. Naturalmente i reperti dei corredi e le immagini delle tombe ci hanno tramandato le usanze alimentari di personaggi con buone possibilità economiche: l’abbondanza di disponibilità di cibo, che non tutti potevano permettersi, era ovviamente indice di ricchezza; anche nella statuaria egizia si può notare che l’adipe presente sul corpo di alcuni personaggi indica un alto livello sociale e grandi possibilità economiche. Ma l’antica saggezza egiziana non esitava ad ammonire contro gli stravizi e le esagerazioni della tavola! In alcuni papiri con “insegnamenti morali” si leggono infatti delle massime molto significative e anche molto attuali, come “Non ti abbuffare di cibo: chi lo fa avrà la vita abbreviata”, oppure “E’ gran lode dell’uomo saggio contenersi nel mangiare”, o infine “E’ meglio stentare dalla fame che morire d’indigestione”. Il pane e la birra Il pane e la birra erano la base dell’alimentazione degli antichi egiziani e pertanto costituivano anche la base delle offerte funerarie per i defunti, come riporta la classica formula dell’offerta che compare sulle stele e su numerosi oggetti dei corredi delle tombe. A conferma dell’importanza di questi alimenti venivano deposti nelle tombe dei modelli di servitori, caratteristici dell’Antico Regno, che raffigurano donne in atto di macinare cereali o di preparare la birra per l’anima del defunto. La coltivazione dei cereali era una delle attività più importanti del popolo egizio, fin dall’epoca predinastica; come è noto fu favorita dalle annuali inondazioni del fiume Nilo, che lasciando sul terreno grandi quantità di fertile limo permettevano di effettuare anche due raccolti all’anno. Proprio il livello raggiunto dalla piena del fiume indicava le potenzialità di raccolto e quindi su quello venivano anche calcolate le imposte che i contadini dovevano al faraone. Se la piena era scarsa il terreno coltivabile si riduceva provocando gravi carestie, di cui ci è stata tramandata notizia da diversi documenti; per questo motivo era importantissima una regolamentazione delle acque e una rete di irrigazione delle terre, che di solito era organizzata e curata da parte del potere centrale. L’aratura e la semina avvenivano appena l’acqua del Nilo si era ritirata dopo l’inondazione; la mietitura era effettuata con falci di legno dal manico corto e con lama costituita fino al Medio Regno da selci seghettate; quindi le spighe venivano battute per separare i chicchi dalla paglia. Una volta puliti, i chicchi di cereali erano stivati dentro granai a forma di silos, sotto gli occhi attenti degli scribi che registravano accuratamente il numero dei sacchi versati nei granai. Poiché nell’antico Egitto non esisteva la moneta, ma solo il baratto, i cereali costituivano spesso lo stipendio mensile dei lavoratori: un esempio ci è dato dagli elenchi delle paghe degli operai che scavavano le tombe dei faraoni nella Valle dei Re, che ricevevano mensilmente quattro sacchi di farro e uno e mezzo di orzo, oltre ad altri beni come legna, pesce e sale. I cereali coltivati nella valle del Nilo erano essenzialmente tre: il farro (triticum dicoccum), un tipo di frumento (probabilmente triticum aestivum) e l’orzo (hordeum sativum vulgare). I chicchi venivano macinati dalle donne nelle case con macine del tipo a sella e la farina ottenuta era utilizzata per fare pane di vario tipo; il lievito non era conosciuto e per lievitare la pasta di pane si usava l’avanzo della pasta del giorno precedente. La cottura avveniva in forni domestici, o anche su lastre di pietra arroventata; per particolari tipi di pane, per usi religiosi e soprattutto per l’offerta nei templi del pane bianco conico, venivano utilizzate delle forme di terracotta preriscaldate. I pani d’orzo servivano soprattutto alla fabbricazione della birra. Prelevati dal forno prima della completa cottura, venivano imbevuti di liquore di datteri e lasciati a fermentare; quindi venivano pressati e filtrati attraverso un setaccio: la bevanda ottenuta consisteva in una birra non molto alcolica che veniva conservata in giare accuratamente tappate. L’aggiunta di altri ingredienti poteva variare il sapore e la gradazione della birra; altre bevande più o meno alcoliche venivano inoltre ricavate dalla fermentazione di diversi frutti o bacche. Vino e olio La coltivazione dell’uva, sia come frutto che per produrre il vino, è attestata in Egitto fin dall’Epoca Protodinastica, anche se come bevanda non ebbe mai la diffusione e l’importanza che ebbe invece la birra. Le scene che appaiono sulle pareti delle tombe ci mostrano che le vigne erano di solito a forma di pergolato e che la pigiatura dell’uva dopo il raccolto era eseguita con i piedi dentro grandi catini, proprio come si è fatto fino quasi ai giorni nostri. I residui della pigiatura poi venivano spremuti ulteriormente tramite presse a sacco: alle estremità del sacco erano infilati due bastoni che girando in senso contrario lo torcevano e lo strizzavano, lasciando uscire il liquido rimanente. Il succo ottenuto era versato in anfore e lasciato fermentare, quindi le anfore venivano tappate; sulla loro spalla era di solito applicata un’iscrizione con l’indicazione dell’annata e del luogo di produzione del vino. Ad esempio le numerose anfore vinarie trovate nella tomba del faraone Tutankhamon presentano un’iscrizione in ieratico, come “Anno 4 per la casa di Tutankhamon” e una stampigliatura in geroglifico sul tappo d’argilla dove si legge “Vino dei possedimenti di Tutankhamon”, o anche “Vino di buona qualità dei possedimenti di Aton”. Dal Nuovo Regno in poi è attestata talvolta la presenza di un piccolo foro sul collo dell’anfora, probabilmente per permettere la fuoriuscita degli ultimi gas di fermentazione dopo la chiusura del contenitore. Come per la birra, il vino poteva essere arricchito con alcuni ingredienti per variarne sapore e gradazione; sappiamo inoltre da documenti scritti che era particolarmente apprezzato il vino prodotto nel delta del Nilo e in alcune oasi. La coltivazione dell’olivo fu introdotta in Egitto dall’oriente solo nel Nuovo Regno, e anche dopo l’olio d’oliva non fu tra i più usati in cucina. Gli olii più utilizzati per condire e per friggere erano l’olio di sesamo, l’olio di lino e soprattutto l’olio bak tratto dalla noce di moringa; alcuni papiri attestano che molti olii particolari venivano importati da paesi stranieri, non solo a fini alimentari, ma anche per uso medico e cosmetico. Altri condimenti per la cucina erano il sale e alcune erbe aromatiche, come il ginepro, l’anice, il coriandolo, il cumino, il prezzemolo e il finocchio; il pepe non era conosciuto e fu importato in Egitto solo in Epoca Romana. Frutta e verdura Orti e giardini erano molto diffusi dell’antico Egitto, anche di piccole dimensioni, sia presso le case dei contadini che nelle grandi ville dei ricchi dignitari. Nei frutteti venivano coltivati cocomeri, meloni, fichi, palme da dattero e, solo dopo essere stati importati nel Nuovo Regno, meli e melograni: come per l’olivo infatti, diversi prodotti arrivarono sulla tavole degli egiziani a seguito dei contatti commerciali, particolarmente fiorenti all’inizio della XVIII dinastia, con i paesi del Mediterraneo orientale. Veniva raccolta e apprezzata anche la frutta selvatica, come le giuggiole, simili alle ciliegie, e le noci di palma dum. Si riteneva inoltre che il frutto della mandragora avesse potere afrodisiaco e significato simbolico erotico, forse per la concentrazione di tossine presenti nella buccia, che ha effetti narcotici e anche allucinogeni in chi lo mangia. Negli orti abbondavano numerose varietà di verdure, tra cui cipolle, porri, aglio, sedano, cetrioli e soprattutto ceci, fave e lenticchie, che erano elemento quotidiano dell’alimentazione degli antichi egiziani; i piselli comparvero solo con il Nuovo Regno. Particolarmente coltivata era la lattuga, i cui cespi raggiungevano grandi dimensioni: forse per questo motivo la lattuga era sacra al dio Min, protettore della fecondità. Lessi o arrostiti erano gustati anche alcuni tipi di tuberi e rizomi. La carne e il pesce La caccia e la pesca furono tra le attività più praticate nell’antico Egitto fin dall’Epoca Preistorica e naturalmente hanno sempre fornito carne e pesce per l’alimentazione degli egiziani. In epoca storica la caccia, almeno per quanto riguarda gli animali di grossa taglia, rimase come attività di tipo sportivo da parte dei ricchi nobili, che spesso si dedicavano a cacciare nel deserto o lungo il Nilo lepri, leoni, gazzelle, ippopotami, e così via. Rimase invece sempre molto praticata la caccia agli uccelli, non solo come divertimento di personaggi facoltosi, ma soprattutto per riempire, insieme al pesce, le mense delle famiglie dei ceti più bassi: si tratta soprattutto di piccioni, anatre, oche, gru e vari tipi di uccelli acquatici. I volatili venivano catturati mediante una rete tesa su uno specchio d’acqua tra due pertiche: tirando da riva una corda, le pertiche si ribaltavano chiudendo la rete e tutti gli uccelli che vi si erano posati ignari. A riva i volatili venivano subito uccisi, spennati, ripuliti delle interiora e messi sotto sale dentro grosse giare, per essere conservate. Le scene dipinte o in rilievo sulle pareti delle tombe, che dovevano ricreare la produzione di alimenti per la vita oltremondana del defunto, ci mostrano che alcuni tipi di uccelli venivano anche allevati: anatre, oche e gru appaiono rinchiuse in recinti con inservienti che introducono a forza nei becchi una specie di pastone cotto su bracieri, per far ingrassare i volatili; il modo più comune per cucinarli era di arrostirli sul fuoco infilzati sugli spiedi. Mentre le uova, anche di struzzo, erano presenti sulla mensa egizia, il pollo compare solo in Epoca Romana. L’allevamento a scopo alimentare era praticato nell’antico Egitto soprattutto per i bovini, utilizzati anche per i lavori agricoli, e per ovini e caprini. Nelle macellerie venivano sgozzati buoi soprattutto di una particolare razza che forniva abbondante carne e grasso; il sangue veniva utilizzato per produrre una specie di sanguinaccio, mentre il fegato, molto apprezzato, poteva servire anche ad insaporire delle focacce; il grasso era usato per cucinare. Gli egiziani preferivano alla carne arrostita quella lessata, con la quale potevano essere preparati anche succulenti pasticci. Altri animali allevati per l’alimentazione erano i conigli e i maiali, ma la carne di questi ultimi era esclusa dalle offerte funerarie e da quelle dedicate alle divinità nei templi; nell’Antico Regno è attestato anche l’allevamento di alcune specie selvatiche, come le iene e le gazzelle. Anche la pesca è oggetto di numerose scene sulle pareti delle tombe: il pesce era il cibo più comune per chi non poteva permettersi quotidianamente la carne, anche se compare pure sulle tavole dei ricchi, ed era molto facile procurarselo, essendo il Nilo molto pescoso. Le tecniche di pesca erano diverse, ma la più usata era quella con la rete a strascico, che consisteva in una barca che attraversava il corso d’acqua trainando una rete e ritornava al punto di partenza richiudendola e imprigionando i vari pesci. La pesca con la lenza, con o senza canna, era ritenuta perlopiù un divertimento per i facoltosi dignitari, che la praticavano nei laghetti artificiali dei giardini delle loro ville. Sulla riva, come per gli uccelli, i pesci venivano aperti, puliti dalle interiora, appesi a seccare e infine posti sotto sale dentro grandi giare per la conservazione; il pesce fresco era invece cucinato di solito arrosto o lessato. Dalle uova dei muggini era ricavata anche una specie di bottarga: le uova estratte durante la pulitura dei pesci venivano salate e quindi appallottolate e pressate. Oltre ai muggini, il Nilo era ricco di anguille, carpe, tilapia e pesci gatto; sulle tavole d’offerta funerarie però i pesci non compaiono mai; il vero motivo di questa esclusione è sconosciuto. Bisogna ricordare inoltre che nella religione egizia numerose divinità erano adorate sotto l’aspetto di animali, i quali pertanto non potevano essere oggetto di alimentazione nelle località sede del loro culto. Fonte: Maria Cristina Guidotti Soprintendenza per i beni archeologici della Toscana

venerdì 15 agosto 2008

La donna è Meret, amata

La donna egizia, tutelata da disposizioni giuridiche che la ponevano su un piano di assoluta uguaglianza all’uomo, entrava nella società attraverso il matrimonio: la “signora della casa” svolgeva il suo ruolo di sposa e madre a garanzia della prosperità del nucleo familiare. La donna egizia, poi, aveva un ruolo attivo anche oltre l’ambito della corte e del clero. Esistevano, per esempio, anche donne che «gestivano personalmente ingenti possedimenti delegando la vendita dei prodotti a propri agenti commerciali anche all’estero». Alla donna egizia, inoltre, era affidato l’eterno compito di seduttrice, moglie e madre: «Sono sette giorni ieri che non ho visto la mia amata. Il mio corpo è divenuto pesante: ho dimenticato me stesso. Se verranno a me i medici il mio cuore non sarà soddisfatto dei loro rimedi. Solo se mi diranno “Eccola è lei” questo mi farà rivivere... La mia amata mi giova più di ogni medicina. Lei è il mio amuleto... ». Non è come semplice moglie, ma appunto con l’aggettivo “meret”, cioè “amata”, che ogni donna sposata viene ricordata vicino al suo consorte. «Se guardiamo al cielo e al movimento eterno degli astri, ciò che per noi è maschile per gli egizi è femminile: dal nome del cielo, pet, alle figure della sua dea per eccellenza, Nut, il cui corpo si curva a simulare la volta celeste mentre la punta delle sue dita e dei suoi piedi toccano la terra, per gli Egizi maschile, nelle forme del dio Geb che si sdraia a terra nell’atto di prepararsi a generare ogni tipo di vita. Tutto questo mondo al femminile siede con la sua forza accanto al faraone. Non a caso nelle rappresentazioni della coppia in cui l’uomo abbraccia la sua donna, e viceversa, cogliamo quanto scritto in testi preziosi. Così dice Hergedef, figlio del faraone Cheope, al figlio: “Se sei un uomo virtuoso, fonda un focolare: sposa una donna forte”. E lo stesso insegnamento dà al figlio Ptahhotep, al tempo della V dinastia (2450 aC circa): “Se sei una persona virtuosa, fonda il tuo focolare. Ama tua moglie con ardore. Rallegra il suo cuore nel tempo in cui vivrai”». Dalla casa e dalla vita quotidiana giungono intatti i colori, i profumi, le forme che circondavano l’universo domestico femminile. Grazie agli oggetti d’uso comune si può ancor oggi immaginare gli spazi delle antiche abitazioni, le mense e le cucine, cui arrivavano colture fresche e frutti maturi. Si possono osservare i letti, le sedie, i tavolini, «i cofani e i cofanetti di legno con metri e metri di tele per il corredo della casa e della persona». «Ecco le donne antiche sedute nei cortili delle loro case, sotto il portico o nei giardini, all’ombra di una palma o di un sicomoro per ripararsi dalla calura; aprire i cofani di legno dipinto per vestirsi al mattino e intingere i bastoncini nel khol per il giorno di festa». E poi ancora pettini, parrucche a fitte treccioline, ghirlande di fiori, vasetti per profumi, specchi, collane, orecchini ed anelli, arpe e flauti «a ricordare giornate da celebrare con attenzioni speciali e far risuonare le antiche musiche e le loro danze». La forza degli oggetti della vita quotidiana va oltre il loro uso e diventa «un racconto in cui leggere anche le paure, le ansie, le superstizioni». Così le raffigurazioni di divinità protettrici della donna e della famiglia ricordano il timore del parto, o il senso di protezione e tenerezza rivolta ai bambini. Oppure, più in generale, «da amuleti, testi e raffigurazioni magiche riemerge quell’angoscia profonda dell’uomo di fronte alla vita e alla sua immensità, alla malattia e alla morte. Ieri come oggi».

Parto e maternità nell'Egitto Antico

Maternità e fertilità L’insegnamento di Ani (Nuovo Regno): «Prendi moglie mentre sei giovane,/che lei faccia un figlio per te;/Lei dovrebbe procreare per te mentre sei giovane./E’ giusto fare bambini./Felice è l’uomo i cui figli sono tanti,/Egli è rispettato per la sua progenie». Il più importante scopo del matrimonio era di far nascere dei figli e perpetuare la famiglia, come è probabile che l’infertilità fosse causa di divorzio, mentre una soluzione alla mancanza di prole era l’adozione. L’interruzione del ciclo mestruale era considerata un possibile segnale di concepimento, ma gli antichi egizi avevano anche sviluppato un numero di prove da realizzare per capire se una donna era incinta o meno. Questa sorta di “test di gravidanza” sono descritti in vari papiri magico-medicali, alcuni dei quali si occupano quasi esclusivamente di ginecologia, ostetricia e della cura del bambino (il che dimostra quanto la procreazione fosse importante nella società egizia). L’unica divinità femminile normalmente raffigurata incinta è Tauret, la protettrice delle donne gravide. Ha la forma di un ippopotamo con gli arti di un leone, la coda di coccodrillo e un seno umano piatto e cadente; sta ritta sulle zampe posteriori, e il suo ventre gonfio sporge in maniera evidente. Anche i geroglifici connessi al concepimento e alla gravidanza mostrano una donna gravida inginocchiata. Un certo numero di testi magico-medicali contengono sezioni sulle partorienti, con ricette o scongiuri sulla “separazione del bambino dal ventre della madre” oppure per accelerare la nascita nel caso di doglie prolungate. L’efficacia di questi scongiuri deriva spesso dall’identificazione della partoriente con la dea della fertilità, Hathor, o con la dea Iside, madre per eccellenza. Una madre poteva allattare il figlio per tre anni, un lungo periodo non raro in molte società perché riduce le possibilità e la frequenza delle gravidanze. Mentre la maggior parte delle donne allattava i propri figli, per i bambini reali e le mogli degli scriba esistevano le balie. Va da sé che le balie reali erano membri di famiglie di classe elevata, spesso mogli o madri di alti funzionari. La loro relazione con i figli del re dava grande prestigio alle loro famiglie, e aiutava i mariti o i figli nella carriera. I papiri magico-medicali contengono anche consigli per stimolare la produzione di latte ed esami per aiutare a capire se il latte fosse buono o cattivo. Il latte materno era considerato un ingrediente efficace per alcune ricette. In un papiro, ad esempio, si consiglia: «cime di papiro, grani di sepet, macinare finemente e mescolare con il latte di una madre che ha avuto un figlio maschio. Un hin [circa mezzo litro] di questo preparato è dato al bambino che trascorrerà un giorno e una notte in un sano sonno».

L'Acqua nell'Antico Egitto, rituali e miti

Per gli egiziani l'acqua era un simbolo che si limitava alle libazioni (= offerte di bevande versate a scopo sacrificale) e alle abluzioni (= atti liturgici che si compiono a scopo di purificazione). L'acqua viene impiegata in queste azioni non in virtù del suo essere, "un liquido trasparente, insipido, incolore, inodore", ma proprio in quanto "acqua", elemento che ha un ruolo determinante nei momenti essenziali della vita degli egizi. La grande ossessione di questi era il mantenimento della vita e per questo motivo volevano che i loro corpi sopravvivessero anche alla morte. A tal scopo essi lavavano con acqua e profumi i cadaveri e, successivamente, li mummificavano. Per questo popolo l'acqua era il frutto di Osiride, il dio morto e risorto, il quale aveva comunicato ad essa la sua virtù fecondativa. Per gli egiziani "acqua" era sinonimo di due grandi entità: il Nilo, l'acqua delle inondazioni, e il Nun, l'acqua della vita. Il Nun era l'oceano primordiale da cui erano nate tutte le forme di vita. Gli egizi pensavano che questo continuasse ancora a scorrere nel sottosuolo e che le sorgenti freatiche fossero il suo riaffiorare sulla terra. I laghi sacri dei templi permettevano di accumulare quest'acqua e di attingerla; si materializzavano così i "laghi della vita" di cui fanno menzione i testi delle piramidi. Secondo gli egizi l'acqua del Nun diede vita al Sole, che da lì sorge ogni mattino. Il culto della vita si ritrova anche nel sole, che ogni giorno moriva per poi rinascere il giorno dopo.

venerdì 1 agosto 2008

La condizione della donna nell'Egitto antico, la signora della Casa

"Feci sì che la donna egizia potesse andare per la sua strada;i suoi viaggi furono estesi fino dove voleva,senza che nessun altro la assaltasse lungl il cammino".Ramses III La donna egizia era considerata "la signora della casa"; se si trattava di una donna del popolo, si occupava della macinatura dei cereali e della preparazione della birra, della filatura e della tessitura del lino; se apparteneva alla nobiltà, invece, sovrintendeva al lavoro delle ancelle. La donna condivideva con il marito la vita sociale e disponeva di un patrimonio che portava in dote allo sposo, ma che un contratto le restituiva in parte in caso di vedovanza. Per legge il marito era tenuto a mantenere la propria moglie. La sua posizione giuridica non differiva da quella dell'uomo. Si preoccupava assieme allo sposo dell'educazione dei figli ed in particolare le era affidata l'educazione della figlia femmina. Si sposava molto giovane, spesso con un uomo più anziano di lei. Solitamente il matrimonio era combinato dai genitori. I due sposi potevano essere consanguinei e appartenevano sempre allo stesso ceto sociale. Colui che sposava una schiava, viveva al di fuori della legalità e i loro figli erano considerati schiavi. All'interno dell'harem, la donna in apparenza godeva di molti agi, ma in realtà era costretta in uno stato di confinamento. Il matrimonio era una semplice festa tra le due famiglie e si concludeva con il trasferimento della sposa a casa del marito. Contratti scritti sono riferibili solo all'età tarda. In caso di divorzio il marito passava degli alimenti alla moglie nella misura di un terzo rispetto alla quota definita nell'accordo iniziale. Cause principali di divorzio erano l'adulterio e la sterilità. Se l'infedeltà del marito era tollerata era possibile che egli prendesse una seconda moglie, al contrario se l'adultera era la moglie veniva frustata e subiva l'amputazione di un orecchio o del naso. La donna aveva diritto dopo la morte ad una tomba tutta sua al pari dell'uomo. (da www.anticoegitto.net)

La condizione della donna nell'Egitto antico, la signora della Casa

"Feci sì che la donna egizia potesse andare per la sua strada;i suoi viaggi furono estesi fino dove voleva,senza che nessun altro la assaltasse lungl il cammino".Ramses III La donna egizia era considerata "la signora della casa"; se si trattava di una donna del popolo, si occupava della macinatura dei cereali e della preparazione della birra, della filatura e della tessitura del lino; se apparteneva alla nobiltà, invece, sovrintendeva al lavoro delle ancelle. La donna condivideva con il marito la vita sociale e disponeva di un patrimonio che portava in dote allo sposo, ma che un contratto le restituiva in parte in caso di vedovanza. Per legge il marito era tenuto a mantenere la propria moglie. La sua posizione giuridica non differiva da quella dell'uomo. Si preoccupava assieme allo sposo dell'educazione dei figli ed in particolare le era affidata l'educazione della figlia femmina. Si sposava molto giovane, spesso con un uomo più anziano di lei. Solitamente il matrimonio era combinato dai genitori. I due sposi potevano essere consanguinei e appartenevano sempre allo stesso ceto sociale. Colui che sposava una schiava, viveva al di fuori della legalità e i loro figli erano considerati schiavi. All'interno dell'harem, la donna in apparenza godeva di molti agi, ma in realtà era costretta in uno stato di confinamento. Il matrimonio era una semplice festa tra le due famiglie e si concludeva con il trasferimento della sposa a casa del marito. Contratti scritti sono riferibili solo all'età tarda. In caso di divorzio il marito passava degli alimenti alla moglie nella misura di un terzo rispetto alla quota definita nell'accordo iniziale. Cause principali di divorzio erano l'adulterio e la sterilità. Se l'infedeltà del marito era tollerata era possibile che egli prendesse una seconda moglie, al contrario se l'adultera era la moglie veniva frustata e subiva l'amputazione di un orecchio o del naso. La donna aveva diritto dopo la morte ad una tomba tutta sua al pari dell'uomo.
(da www.anticoegitto.net)

I colori nell'Egitto antico e i loro significati

Per gli antichi Egizi ogni colore aveva un preciso significato. Il verde ed il turchese, che richiamavano la vegetazione e l'acqua, rappresentavano giovinezza e rigenerazione. Il rosso era il deserto e perciò il caos ( gli egizi elencavano i nomi delle entità ritenute pericolose). A questo colore si contrapponeva il nero della terra fecondata dal limo che simboleggiava l'eterno rinascere della natura. Il giallo, il colore dell'oro, era associato alle membra degli dei. Il bianco ovverosia l'argento, corrispondeva alle loro ossa. Il blu dei lapislazzuli simboleggiava i loro capelli. Il bianco si ricavava dal gesso o dal calcare, finemente tritato. Per ottenere il celeste si utilizzava l'azzurrite. Per i marroni si mescolavano ossido di ferro e pigmenti bianchi. Il nero era ricavato dal carbone o dall'ossido di manganese. Per il rosso si utilizzava l'ossido di ferro anidrato. Il verde veniva prodotto polverizzando la malachite. Per ottenere il giallo usavano l'ossido di ferro idratato. A partire dalla XII dinastia fa la sua comparsa l'arsenico. Il legante per i colori non è stato ancora identificato con sicurezza. Forse venivano utilizzati materiali gommosi, cera d'api e bianco d'uovo. (link al sito nel titolo)

L'anima per gli egiziani antichi

Ci sono tre diversi principi spirituali nella vita dell'uomo egiziano:l'Akh, una forza spirituale e sovrannaturale. Viene rappresentato dall'Ibis Piumato, lo stesso segno geroglifico forma la radice del vero "essere efficace, benefico, glorioso". In contrapposizione al corpo, che appartiene alla terra, l'akh appartiene al cieloNelle epoche più remote era appannaggio esclusivo degli dei e dei faraoni, in quanto esseri divini, infatti durante l'Antico Regno, il sovrano era sottoposto ad un rito particolare il "sakh", inteso a spiritualizzarlo e a renderlo un akh, cioè uno spirito.Presto la concezione dell'akh divenne propria anche dei comuni mortali.Raggiungere il proprio akh, significava raggiungere la morte e quindi una dimensione come quella dell'"io" spirituale.Il Ba si assimila maggiormente al nostro concetto di anima. Simboleggiata da un uccello e talvolta a partire dal XVIII dinastia, da un volatile dalla testa umana.Sembra che in origine il ba, fosse la facoltà propria degli dei di assumere diverse forme.Nelle tombe è facile vedere il ba rappresentato nell'atto di volare intorno al sepolcro o di dissetarsi ad uno stagno.Al di là della morte il ba continuava a vivere, conservando non il corpo, ma soltanto le proprietà che animava l'essere vivente di cui era stato parte.Il Ka è uno dei concetti spirituali di più difficile interpretazione.Nel corso dei secoli il senso attribuito a questa parola ha subito notevoli mutazioni e si è arricchito di significati diversi:Secondo i primi egittologi il Ka esprimeva "l'essere, la persona, l'individualità", in un secondo tempo Lepage-Renouf ha sottolineato i diversi caratteri di genio, dio-protettore e doppio spirituale, proponendo un'interpretazione, ripresa poi da Maspero, che definì il Ka come una "proiezione vivente della figura umana, un doppio riproducente i dettagli dell'individuo a cui appartiene".Per altri studiosi il Ka era la potenza generatrice e la forza sessuale. Il segno geroglifico del Ka consiste in due braccia protese all'abbraccio, ad un gesto cioè di protezione, questo ha avvalorato l'ipotesi di un dio protettore, un ipotesi molto discutibile in quanto le braccia alzate non hanno nulla dell'abbraccio, indicano invece il segno del doppio.Dunque il Ka proteggeva i vivi, ma ancor di più i morti, infatti per gli Egiziani non era altro che "raggiungere il proprio Ka". dal sito www.anticoegitto.net

Akh, Ba e Ka, l'anima nell'Egitto antico

I concetti di ka,ba e akh vennero formulati per la prima volta all’interno dei Testi delle Piramidi.Ka “la forza vitale dell’uomo”.Concetto spirituale del nutrimento, ka al plurale, kau, significava infatti nutrimento, cibo. La tomba era luogo di trasfigurazione, sakhu, nel quale in base ai riti il defunto si trasformava in akh lo “spirito trasfigurato”. La conservazione del corpo era parte essenziale per l’ascensione al cielo, ove nell’emisfero settentrionale risiedeva l’akh che brillava insieme alle stelle “che ignorano la fatica”, cioè le stelle circumpolari. L’altro concetto spirituale era il “ba”, la manifestazione animata e personale del morto, la capacità cioè di muoversi ed assumere qualsiasi forma voluta dal defunto. Il ba era spesso raffigurato come uccello a testa umana. Altri elementi della personalità umana che permettevano la sopravvivenza dell’uomo erano l’ombra, l’energia (hekau), il cuore ed il nome. I teologi egizi si sono serviti di soluzioni diverse per tentare di risolvere il complesso problema vita-morte. Teologie che, se anche alle volte diverse, erano valide sotto un determinato aspetto. I teologi non hanno elaborato una teoria unica, rifuggendo da ogni sistematicità e proponendo invece solo “verità limitate”. Nel rituale dell’apertura della bocca, nella scena 71, il dio Thot annuncia a Ra che ha modellato la statua del re … gli ha dato il soffio della vita, gli ha aperto la bocca affinché possa divenire un akh eccellente e il suo nome possa durare nell’eternità:”Egli proteggerà le membra di colui che gli verserà l’acqua. Egli avrà potere sul pane, potere sulla birra. Egli uscirà come ba vivente, egli compirà le sue trasformazioni secondo il suo volere, in ciascuno dei luoghi ove è il suo ka”. Gli egizi erano turbati dall’idea di cosa potesse accadere nell’aldilà, ne troviamo testimonianze sia nel “Dialogo di un disperato con il suo ba” e nelle diverse versioni del “Canto dell’Arpista”.In quest’ultimo testo, per la prima volta apparso nella tomba del re Antef, si legge: “ Io ho ascoltato i bei discorsi di Imhotep e di Herdedef, riferiti nelle loro parole ed in modo completo, ma dove sono mai (le loro tombe)?Le loro mura sono distrutte, le loro sedi non ci sono più, come se non fossero mai esistite.Nessuno è mai tornato di là, per raccontarci la propria condizione e situazione,per placare il nostro cuore finché non andremo nel luogo dove loro sono (già) andati.Quando a te rallegra il tuo cuore, per dimenticare il mio stato d’animo, è meglio per te.Segui il tuo cuore finché vivi, poni mirra sulla tua testa …Fai in modo che la tua felicità si accresca, non è ancora stanco il tuo cuore.Segui il tuo desiderio ed il tuo godimento, agisci sulla terra come comanda il tuo cuore.(Quando) viene per te quel giorno del lamento, Osiri non ascolta certo il loro lamento, ché il loro lamento non ha mai liberato il cuore di un uomo nella fossa.Passa un giorno felice e non staccartene, osserva, non c’è nessuno al quale sia stato concesso di prendere le sue cose con sé (nell’aldilà), osserva, non c’è nessuno che sia tornato di qua o che ritornerà di nuovo”. Per gli antichi egizi i rischi connessi alla “seconda morte” erano conseguenza della distruzione del corpo e dell’annullamento della personalità qualora non fossero stati eseguiti correttamente i rituali. In ciò vedevano un destino non solo di tormenti, ma di totale oblio. Solo la fede religiosa poteva aiutare l’uomo a superare i tanti ostacoli che incontravano nel difficile cammino attraverso il Duat, cioè il mondo sotterraneo. A partire dal Nuovo Regno si evidenzia la netta distinzione tra terra e cielo e il Duat dove l’oscurità regna sovrana ed il mondo appare a volte rovesciato, tanto che a volte si è costretti a camminare a testa in giù, e il defunto può essere privato del suo ba. Secondo i Libri dell’Oltretomba, per il sovrano questo mondo era ostile, popolato di entità nemiche e mostri terribili. Identificato con il dio Ra, il faraone per mezzo di formule magiche poteva superare i molti pericoli durante la notte e risorgere con il dio-sole che respingendo l’attacco del serpente Apophis, ogni giorno all’alba assicurava la vittoria della vita sulla morte e dell’ordine sul caos. da www.anticoegitto.net

Storie di dee - La donna nell'Egitto Antico

Nella società egizia la donna poteva ricoprire le più importanti cariche dello stato: nessuna strada le era preclusa. Troviamo così faraoni e sacerdoti donne la cui fama ha sfidato il passare dei secoli grazie alle loro personalità davvero uniche. la civiltà egizia dimostra ancora una volta il suo alto grado di evoluzione ponendo la donna al pari dell'uomo. Anzi, l'uomo non era considerato tale senza la donna. Questo concetto rientrava nella visione della dualità egizia che corrispondeva ad un equilibrio armonico in accordo con l'equilibrio universale. Parte maschile e parte femminile avevano assolutamente lo stesso valore ed erano indissolubili. E non solo sulla terra, nel mondo dei vivi, ma anche in cielo, nel pantheon degli dei. Questa parità anche a livello ultraterreno trova conferma nell'analisi delle concezioni legate al principio della creazione. Uno dei più antichi miti relativi all'origine del mondo vedeva Atum, unico essere dell'universo, utilizzare la mano per il solo atto creatore possibile ‑quello della masturbazione, intesa come simbolo del potere creatore della mente e della mano, quest'ultima artefice di tutte le creazioni umane. Con l'evolversi della teologia la mano diventò un simbolo dell'elemento femminile contenuto nella mente divina e venne identificata con la dea Iusaas, consorte di Atum, con la quale il dio creò la prima coppia divina costituita da Shu, divinità maschile che rappresentava l'atmosfera luminosa, l'aria e la luce, e Tefnut, entità femminile che indicava l'umidità. Da questa prima coppia divina successivamente furono generati Geb, dio della terra, e Nut, dea del cielo. I teologi egizi elaborarono varie teorie relative alla creazione degli dei e degli uomini che si diffusero nel mondo, a seconda del periodo storico e dei diversi centri politici. Un elemento costante era la complementarità tra parte maschile e femminile. Ad esempio, per i sacerdoti di Hermopolis, il principio vitale era costituito da quattro coppie di dei, maschili e femminili: Nun e Naunet che rappresentavano l'umidità, Kek e Keket le tenebre, Hehu e Hehet l'infinito spaziale e infine le due entità nascoste Amon e Amonet. Rimanendo nella sfera del divino, la donna nei panni di dea veniva raffigurata con diverse sfaccettature e poteva esprimere lati terribili e pericolosi oppure suscitare amore e compassione. Nel "mito della distruzione degli uomini", è presente un'entità femminile complessa: la dea Hathor. Questa divinità fu inviata dal dio Ra contro quegli uomini che avevano minacciato di scacciarlo dal trono divino per via della sua età avanzata. Hathor si scagliò con un'incredibile ferocia contro gli esseri mortali che si erano invano rifugiati nel deserto. La dea li scovò e li uccise, compiacendosi alla vista del sangue delle sue vittime. Una versione di questo mito vede "1a Dea Lontana" nei panni di Tefnut che fugge nel deserto orientale della Nubia dove, prese le sembianze di una leonessa feroce, semina il terrore tra la popolazione. La collera divina sembrava davvero inarrestabile ma Shu e Thot, i messaggeri celesti inviati da Ra, riuscirono ad avvicinare la terribile fiera e a intrattenerla con affascinanti racconti tra cui quello celebre del leone e del topo, giunto fino a noi grazie alla rielaborazione dello scrittore La Fontaine. La dea si commosse e decise di fare ritorno a casa ma non poteva certo entrare in Egitto nei panni di una leonessa sanguinaria. Thot allora calmò la rabbia della divinità versando vino nelle acque di Philae, dove essa si abbeverava. Costei, scambiando il vino per sangue, ne bevve fino a placare la sete, si ubriacò e finalmente si calmò. Al suo risveglio aveva riacquistato il suo aspetto positivo e fu così accolta in Egitto come dea Hathor con grandi feste e onori. Hathor infatti aveva un aspetto benefico. Essa era considerata la madre del sole, la vacca celeste che ingoiava l'astro diurno alla sera e lo partoriva al mattino, patrona della danza, della musica e dell'amore. Gli Egizi la invocavano spesso "perchè procurasse un focolare alla vergine e uno sposo alla vedova". Proseguendo con le dee benefiche del pantheon egizio possiamo ricordare Iside e Mut. Iside è la sposa di Osiride e rappresenta la moglie amorevole, che riporta in vita il marito ucciso dal terribile Seth, e allo stesso tempo la madre affettuosa e premurosa, che protegge il figlio Horus. Questa immagine ebbe un successo inimmaginabile: la madre amorevole, con il figlio Horus sulle ginocchia, fu venerata anche dai Copti e passò a rappresentare la Vergine cristiana, ancora presente nella nostra iconografia. Nei panni di madre divina troviamo anche la dea Mut, sposa di Amon, il cui nome in egizio significa proprio madre. Le dee in terra invece erano rappresentate dalle regine, le spose dei faraoni, che avevano il ruolo di completare la maestà e la divinità del sovrano.

giovedì 24 luglio 2008

chi era...Franco Gasparri

Premetto che a me, bimba di sette, otto anni, all'epoca non era certo raccomandato leggere i fotormanzi, ma cercavo, appena potevo, di leggerli di nascosto. Le belle fotografie, le didascalie semplici e il fascino del proibito, era "roba da grandi" mi invogliavano. Non mi ricordo quasi più niente di quelle storie patinate...Solo dei nomi mi sono rimasti impressi. Uno su tutti, un uomo che somigliava a mio padre da giovane... Gianfranco Gasparri noto come Franco (Senigallia, 31 ottobre 1948Roma, 28 marzo 1999) è stato un attore italiano. Nacque a Senigallia ma si trasferì dopo pochi anni con la sua famiglia a Roma. Ebbe grande popolarità come attore di fotoromanzi della Lancio negli anni 70. Interpretava ruoli di primo piano ottenendo ampi consensi nel pubblico femminile. Recitò anche nel cinema: ricordiamo la sua partecipazione al film del 1962 La furia di Ercole e le sue interpretazioni da protagonista nei film Mark il poliziotto (1975), Mark il poliziotto spara per primo (1975) e Mark colpisce ancora (1976), per la regia di Stelvio Massi. Tutti e tre i film ebbero eccezionali incassi al botteghino e si distinsero per essere fra i migliori del filone "poliziottesco" tanto in voga in quel periodo. Sempre nel 1975 interpreta La peccatrice, regia di Pier Ludovico Pavoni, e nel 1974 La preda, regia di Domenico Paolella, insiema all'attrice eritrea Zeudi Araya. Il 4 giugno 1980 ebbe un incidente con la sua motocicletta, in seguito al quale rimase paralizzato, interrompendo prematuramente la sua carriera d'attore. Morì diciannove anni dopo per un'improvvisa crisi respiratoria Estratto da "http://it.wikipedia.org/wiki/Franco_Gasparri"

il Fotoromanzo

Il fotoromanzo è un particolare tipo di fumetto in cui i disegni sono sostituiti da fotografie scattate ad attori su un set simile a quello cinematografico. Per questo spesso il fotoromanzo è paragonato a un film statico. Come forma narrativa il fotoromanzo discende dal feuilleton. Significa letteralmente "spazio in fondo alla pagina" (in gergo giornalistico taglio basso). Nasce in Francia il 1 luglio 1836 ed è una forma di romanzo popolare a puntate, creato appositamente per aumentare le vendite dei quotidiani. L'8 maggio 1947 esce il primo vero e proprio fotoromanzo, la testata si chiama "Il mio sogno" ed è il risultato dell'intraprendenza del giovane romano Stefano Reda, giornalista appassionato di letteratura, e della fiducia accordatagli da Giorgio Camis De Fonseca, socio di Rizzoli e dirigente della Editrice Novissima di Roma, che lo finanzia. Sulla rivista c'è scritto: "settimanale di romanzi d'amore a fotogrammi", ancora non appare la parola fotoromanzo. La rivista si compone di dodici pagine in bianco e nero e due puntate di fotoromanzi intervallati da racconti e rubriche, venduta al prezzo di 20 Lire. I soggetti sono dello stesso Stefano Reda e di Luciana Peverelli, scrittrice affermata di romanzi rosa. "Nel fondo del cuore" di Stefano Reda e "Menzogne d'amore" di Luciana Peverelli con protagonisti Glauco Selva e Resi Farrel sono i primi due fotoromanzi pubblicati. Pochi mesi dopo l'uscita del primo "Sogno", esce "Bolero", altra testata storica di fotoromanzi, da un'idea dello sceneggiatore di fumetti Luciano Pedrocchi che riesce a convincere Arnoldo Mondadori a fargli pubblicare la rivista. Dall'anno precedente, il 1946, era nelle edicole la rivista Grand Hotel, ma i suoi romanzi erano solo disegnati, non vi erano ancora le foto, poi si cominciò inserendo nelle vignette disegnate le fotografie dei volti, per poi arrivare alla sola fotografia. Siamo ancora nel dopoguerra ed il fotoromanzo insegna a leggere a molte ragazze italiane. Le eroine sono sempre povere e romantiche, ma coraggiose e decise, per regalare speranze e a volte illusioni a gente semplice che ha bisogno di sogni. Come riporta il libro "Le carte rosa" di Ermanno Detti, che prende in esame l'evoluzione del fotoromanzo nel linguaggio, nei contenuti e nell'immagine, la storia delle carte rosa non è tanto la storia di come eravamo o di come siamo, quanto di come sognavamo e di come sogniamo. Tuttavia le prime proposte di storie a fotogrammi non sono storie inedite, ma sequenze di immagini tratte da film con l'aggiunta di didascalie: "La principessa Sissi" con Romy Schneider, "Violenza sull'autostrada" con Luisa Ferida, "Eliana e gli uomini" con Ingrid Bergman sono alcuni dei titoli. Gli anni '60 vedono l'affermarsi della casa editrice Lancio, nata inizialmente come società di pubblicità nel 1936 per opera di Arturo Mercurio. È in questo periodo, però, che la Lancio inizia a occuparsi di fotoromanzi, con la nascita di numerose nuove testate prestigiose: Letizia, Charme, Marina, Jacques Douglas, Lucky Martin, ecc. La Lancio vola anche a Parigi e a New York per realizzare alcune delle sue più famose produzioni. È a questa casa editrice soprattutto che si deve la qualità di questo genere che ha appassionato milioni di lettori in tutto il mondo. I primi teatri di posa (niente a che vedere con quelli di oggi della Lancio), erano nel capannone di via Romanello da Forlì di Roma. Lì, con un compenso di cinquecento lire per comparsata, gli aspiranti attori sognavano una sfolgorante carriera come quella di Sofia Loren o di Gina Lollobrigida. Il primo numero è subito esaurito in edicola e per il secondo la tiratura viene raddoppiata. Si tratta ancora di storie semplici realizzate con una tecnica rozza. Nel 1976 la tiratura delle varie case editrici raggiungeva in Italia la quota di oltre otto milioni e seicentomila copie al mese, di cui cinque milioni vendute dalla sola Lancio. Nascono nuovi miti, le ragazze italiane appendono alle pareti le foto dei loro attori preferiti: Franco Gasparri, Jean Mary Carletto, Claudia Rivelli, Michela Roc e Katiuscia, Claudio De Renzi, Gianni Vannicola, Alex Damiani, Franco Dani, Sebastiano Somma sono i loro idoli e molte di loro fanno la fila fuori dai cancelli della Lancio per poterli vedere. Anche il cinema li corteggia e Franco Gasparri viene scelto dal regista Stelvio Massi per interpretare "Mark il poliziotto" (1975) proprio per l'enorme popolarità raggiunta dall'attore grazie ai fotoromanzi. La diffusione dei fotoromanzi inizia a scemare a partire dalle seconda metà degli anni '80, ma dopo quarant'anni di vita questo genere di lettura è riconosciuto ormai senza più i pregiudizi di un tempo come espressione della narrativa popolare, la cosiddetta letteratura rosa. Tra gli attori di fotoromanzi degli anni '80 ricordiamo: Franco Gasparri, Alessandro Inches, Michele Trentini, Franco Califano, Ornella Pacelli, Maurizio Vecchi, Gioia Scola, Barbara De Rossi, Laura Antonelli, Francesca Dellera,Luc Merenda, Kirk Morris, Ivan Rassimov, Renato Cestiè, Sebastiano Somma e Pascal Persiano Lo storico regista di Grand Hotel è da più di 20 anni Carlo Micolano che ha battezzato tutti i principali attori dal 1980 in poi. Tra gli attori protagonisti di fotoromanzi di Grand Hotel ricordiamo: Massimo Ciavarro, Ray Lovelock, Maurizio Merli, Philippe Leroy, Kabir Bedi, Alessio Boni, Mirka Viola, Fabio Fulco,Massimo Serato, Pascal Persiano, Maurizio Aiello, Sebastiano Somma, Patrizio Pelizzi, Roberto Farnesi, Serena Autieri, Barbara Chiappini, Valentina Pace e Enrico Mutti. Tra gli attori e le attrici che hanno partecipato a fotoromanzi per poi proseguire la loro carriera al cinema, a teatro e nelle fiction televisive: Vittorio Gassman, Sofia Loren, Giorgio Albertazzi, Silvana Pampanini, Alberto Lupo, Gina Lollobrigida, Silvana Mangano, Raf Vallone, Mita Medici, Achille Togliani, Mal, Mike Bongiorno, Franco Gasparri, Maurizio Merli, Luciano Francioli, Terence Hill, Massimo Serato, Sebastiano Somma, Renato Cestiè Pascal Persiano, Antonio Zequila, Kirk Morris, Sabrina Marano, Ivan Rassimov, Claudio Aliotti, Franco Califano, Laura Antonelli, Adriana Rame, Maurizio Vecchi, Barbara De Rossi, Gioia Scola, Claudia Rivelli, Paola Pitti, Piero Leri, Ornella Muti, Isabella Ferrari, Massimo Ciavarro, Gerardo Amato, Alessandro Piccinini, Mauro Franciotti, Anna Valle, Gabriel Garko, Barbara Chiappini, Luca Ward, Renata Jovine, Mirka Viola, Patrizia Pellegrino, Alba Parietti, Alessandra Cellini, Caterina Balivo, Alessio Boni, Patrizio Pelizzi, Roberto Farnesi, Victor Alfieri, Fabio Fulco, Vanessa Gallipoli, Tiziana Sensi, Donatella Salvatico, Simone Corrente, Riccardo Scamarcio, Hoara Berselli, Maurizio Aiello, Elisabetta Pellini, Mirco Petrini, Luca Calvan, Raffaello Balzo, Paolo Calissano, Simone Piccioni, Edoardo Velo, Max Parodi, Mariangela Fremura, Alberto Rossi, Ettore Bassi,Micaela Ramazzotti, Anna Safroncik, Edoardo Costa, Giovanna Rei, Ivan Venini, Danilo Brugia, Milena Miconi, Enrico Mutti, Serena Autieri, Manuela Arcuri, Brigitta Boccoli, Nina Soldano, Emanuela Morini,Hugo Barret, Alessia Merz, Simone Montedoro, Sonia Bruganelli, Paolo Persi, Cosima Coppola, Costantino Vitagliano, Samantha Capitoni.